Non mi piace conoscere la trama di un film prima di andare al cinema o leggere le recensioni di un libro prima di averlo letto. Ho così poche occasioni di stupirmi che non voglio togliermi la sorpresa di scoprire nel bene o nel male cosa mi attende.
Faccio la stessa cosa anche con le gare, raccolgo delle informazioni superficiali e poi mi faccio un mio progetto mentale, perlomeno per cercare di indirizzare gli allenamenti nella presunta direzione delle difficoltà della gara. E’ un metodo di allenamento (#cazzomannaggia) molto soggettivo che qualche volta funziona, mentre altre può portare a epici fallimenti, soprattutto quando la mia idea si discosta molto dalla realtà.
Anche nel caso della PTL ho seguito questa strategia, d’altra parte per una corsa che sulla carta dichiara oltre 300 Km e 26.500 m di dislivello positivo come ci si prepara?
I miei punti di riferimento si fermano molto prima, 26 ore e rotti per l’UTMB e 33 ore per la Spartathlon, alla PTL se va bene me la cavo con 3, 4 volte tanto. Gli ordini di grandezza sono enormi.
Per fortuna le ansie e le paure si placano qualche giorno prima della partenza, quando, oramai, quello che potevo fare è stato fatto e un’insana curiosità di scoprire cosa c’è oltre mi assale. Quello che mi piace di queste ultra-avventure è proprio la scoperta di ciò che non conosco.
Per fortuna a Chamonix non c’è ancora molta gente, il grande circo deve ancora aprire e al briefing gestito dal comitato PTL (a parte dall’UTMB) si respira un’aria tranquilla da gara di paese. Con molta poca enfasi, ci dicono che ci saranno delle difficoltà tipo catene, creste, pietraie ma nulla di cui ci dobbiamo preoccupare.
Non sono molto nostalgico ma, c’è poco da fare, ogni volta, partire da Place Triangle de l'Amitié a Chamonix, per quello che rappresenta per il movimento del Trail Running è sempre una grande emozione anche per tre vecchi e consumati trailers come noi. Si, perché questa avventura si corre in squadra e noi siamo in tre.
Fin da subito è evidente che amiamo l’avventura, non ci siamo mai incontrati prima della partenza e non abbiamo mai guardato le mappe del percorso. Le altre squadre sembrano procedere, come teleguidati da un satellite, senza guardare il percorso da seguire. Noi, invece, decidiamo di fare un controllo sui nostri strumenti (la gara non è balisata e si segue una traccia GPS) e pensiamo bene che tutti si stiano sbagliando e procediamo su un sentiero alternativo prima di renderci conto del nostro errore di presunzione. Dobbiamo ancora prendere la mano con gli strumenti ma ci sarà parecchio tempo per farlo.
Il mio zaino, grazie all’esperienza acquisita alla Marathon des Sables, è pesante ma gestibile, Roberto ha un grosso zaino da trekking che non gli ho mai visto e Luca, beh, Luca può concorrere tranquillamente per il premio per lo zaino più pesante di tutti, credo che abbia il doppio di tutta l’attrezzatura più qualcosa di scorta extra. Le altre squadre hanno zaini appena più grandi di quelli per l’UTMB e hanno provato quasi tutto il percorso, dove noi ci perdiamo o impieghiamo ore a capire dove passare, ci superano, passando, senza esitazione, esattamente dove avremmo dovuto passare anche noi, lasciandoci a bocca aperta.
Fin da subito la gara si rivela in tutta la sua essenza: tra due sentieri (quando ci sono) i tracciatori del percorso scelgono sempre quello più impervio.
Spesso perdiamo molto tempo a cercare la via, semplicemente, perché ci sembra impossibile passare dove ci indica la traccia GPS.
Ben presto capiamo che questo è lo spirito dell’avventura e in un certo qual modo apprezziamo il gusto perverso di mettere i concorrenti in continue situazioni difficili, abbandoniamo la competizione con le altre squadre ed entriamo in una sorta di sfida (psicologica) con l’organizzazione della gara. I nostri pensieri diventano ben presto: “volete farci passare di là, bene, noi ci passeremo e chi la dura la vince”. Sembra stupido ma questo cambio di prospettiva ci aiuta a rimanere vigili, sempre pronti a prendere decisioni, perché sappiamo che dietro l’angolo, dietro un tratto più scorrevole, ci sarà sicuramente qualche difficoltà ad attenderci.
Non ne so molto di gare così lunghe e mi affido ai miei compagni che ne hanno già portate a termine diverse (sono due mostri sacri). Sono molto curioso di vedere cosa succederà quando uscirò dalla mia comfort zone.
La prima notte non dormiamo, è una notte bellissima, calda e limpida, il cielo stellato è stupendo e mi convinco che sia la strategia giusta.
Sta per arrivare l’alba, siamo soddisfatti di essere riusciti a trovare il percorso dove sembrava non esserci. Altri hanno optato per un tentativo sulle creste che a nostro avviso avrebbe potuto concludersi con un tratto non praticabile. Infatti, mentre risaliamo faticosamente la valle lungo un accenno di sentiero, ci giriamo spaventati dal rumore delle pietre che rotolano dalla cresta e vediamo Iker Karrera e Zigor Iturrieta che franano sulla testa di Roby.
Come molto spesso accade, dopo tante ore di movimento e poche di sonno, il tempo assume una connotazione liquida ed è sempre più difficile percepirne lo scorrere. La tradizionale distinzione tra giorno e notte non esiste più, alcuni attimi durano un’eternità mentre ore sembrano volare via in pochi secondi.
Attraversiamo colli mai percorsi da nessuno prima di noi dove non scorgiamo neanche le tracce dei primi, saliamo pietraie così ripide che dobbiamo procedere scalati per non franarci addosso l’uno con l’altro, e scendiamo vallate in mezzo a piante di mirtilli così alte che ci arrivano al ginocchio, metà dei quali li ho mangiati io.
Vediamo così tante cose meravigliose che il nostro cervello fatica a memorizzarle.
Con qualche ora di ritardo sui nostri calcoli “spanno metrici” arriviamo in Val Veny alla prima delle due basi vita, sollevati di aver raggiunto questo traguardo ci perdiamo allegramente in chiacchere e con perfetto tempismo ci avviamo, dopo aver recuperato il nostro kit da ferrata, verso la parte più tecnica di tutto il percorso con il buio. Opto per un paio di Spin Rs, dobbiamo salire la vecchia ferrata al Rifugio Monzino e ridiscendere da quella nuova e la scelta si rivela azzeccata per arrampicare su roccia.
Dove ci aspettiamo di trovare un ponte e normalmente ci sarebbe un simpatico volontario troviamo solo un palo con una balise (ne incontreremo solo tre su tutto il percorso) e un torrente. E’ buio e illuminato dalle nostre lampade frontali sembra molto impetuoso, non vediamo altre squadre, nel dubbio chiamiamo l’organizzazione che ci dice che dovrebbe esserci una corda. La corda non c’è. Non c’è altra via, lo guadiamo e passiamo dall’altra parte. Nell’oscurità il Monte Bianco incombe con la sua massa enorme davanti e sopra di noi. Poco dopo troviamo una corda tirata tra due rocce di un altro torrente. Ringraziamo l’organizzazione di tanta generosità. Roberto prova ad appendersi alla fettuccia, che essendo elastica, lo fa penzolare con il sedere in acqua. Decidiamo di saltare e atterriamo dalla parte opposta. Non è facile trovare l’attacco della ferrata al buio tra le vecchie corde a penzoloni dalla parete.
Cominciamo la nostra ascesa, fa piacere tirarsi su con la forza delle braccia alleggerendo il peso del corpo sulle gambe ormai stanche. La paura del vuoto e l’adrenalina ci spingono ad arrampicare veloci tra rocce, spit e gradini e raggiungiamo la fine della ferrata nel cuore della notte. La parete è così a strapiombo che vediamo nella valle e sulla ferrata le altre squadre che hanno sfruttato la via illuminata dalle nostre lampade frontali. La luna piena comincia a far intravedere nel buio il ghiacciaio de Bruillard, mangiamo qualcosa felici di essere li, a metà strada tra il mare e la vetta del Monte Bianco. Riprendiamo il cammino ma non riusciamo a trovare il percorso raggiungere il rifugio, waypoint obbligato. Lo vediamo sui nostri schermi ma ci sembra essere al di là di una parete verticale che sembra insormontabile all’ombra della luna. Io provo a salire ancora di quota per cercare un passaggio magari più agevole, Luca prova a tastare la parte e Roberto studia il roadbook. Tutti e tre i tentativi si rivelano infruttuosi. Il posto è molto bello ma siamo lì da troppo tempo, cerco segnale per chiamare il rifugio. Increduli e un po’ annebbiati dalla stanchezza seguiamo le indicazioni del rifugista verso la parete che ci sembrava invalicabile e magicamente troviamo dei vecchi segnavia gialli che ci guidano alla meta. Le altre due squadre che hanno sicuramente dormito qualche ora ci stanno raggiungendo. Firmiamo il cartellone al rifugio e scopriamo di essere quarti, sappiamo che non ha nessun valore e che siamo appena all’inizio ma ci svegliamo e corriamo all’attacco della ferrata di discesa. Procediamo spediti quando, Luca ed io, per vedere dove fosse finito Roberto, illuminiamo con la frontale il vuoto sotto ai nostri piedi appoggiati a un gradino fatto di tondino metallico conficcato nella roccia. Non so quelle di Luca ma le mie gambe hanno cominciato a tremare in un misto di paura e stanchezza e ho iniziato a utilizzare anche la seconda longe. L’attrezzatura, compreso il casco, è servita tutta. Con un sorriso ebete raggiungiamo Roberto e insieme rimettiamo i piedi sul fondo valle.
Alterniamo periodi di estrema lucidità stimolata dalla tensione e dalla paura, a momenti di annebbiata tranquillità. Infatti, quello che sembrava il semplice attraversamento del ghiacciaio del Miage si rivela un vero incubo. Non siamo molto agili sugli sfasciumi instabili e fatichiamo parecchio a uscirne. Suggerisco con insistenza una pausa per riposare, ma l’aria gelida che scende dal ghiaccio sul Lac Combal ce lo impedisce. Arriviamo al rifugio Elisabetta che è ormai l’alba del terzo giorno, veloce colazione e non ostate non sia prevista la possibilità di dormire per noi concorrenti, molto gentilmente, ci offrono una camera, dove optiamo per una sosta di soli quarantacinque minuti. Fin da piccolo ho sempre avuto problemi ad addormentarmi, di solito dormo poco e male. Temo molto questo momento. Ho paura, avendo così poco tempo a disposizione, di non riuscire a dormire ma sollevare, finalmente, i piedi da terra dopo tre giorni, invece, mi proietta in un sonno intenso.
Al suono della sveglia ci prepariamo velocemente, come programmati per questo tipo di routine e in quella che ci sembra una confusione assurda, prodotta dagli escursionisti che preparano i loro grossi zaini, riprendiamo il nostro cammino, dove ritroviamo la pace. La nostra vita si è ridotta all’essenziale: mangiare, dormire (poco) e seguire il nostro percorso. Nei nostri zaini abbiamo quel poco che ci serve.
Oramai, a causa della stanchezza e della privazione di sonno, pur senza comunicare, agiamo come un unico organismo monocellulare, le esigenze di uno dei tre, sono quelle di tutti e tre.
L’esperienza è così intensa che è difficile mettere in riga i pensieri. I ricordi e le immagini non viste ma memorizzate si mescolano e affiorano in ordine sparso, alcuni pezzi sono invece un buco nero.
Il pezzo che ci conduce al rifugio Robert Blanc è molto bello ma il tempo sta cambiando e sono previsti temporali, facciamo solo una breve sosta che tradotto vuol dire mangiare e non dormire. Fuggiamo velocemente (si fa per dire) con altre due squadre, tra cui una composta da fratello e sorella. Lui, lo soprannomino Ivan Drago (quello di Rocky) perché è sempre impassibile di fronte alle difficoltà. Cerco di immaginarmi la loro storia, quale sarà il motivo che li ha spinti a partecipare a un’avventura del genere? Conoscono molto bene il percorso, ne hanno già provato tutti i pezzi difficili, lui è un mago del GPS, lei progressivamente è sempre più stanca, noi dormiamo meno ma quando perdiamo tempo a cercare la strada ci raggiungono sempre. Quando il primo temporale ci arriva addosso, all’unisono, estraiamo la nostra arma segreta, il poncho. Rapidamente senza fermarci lo indossiamo sopra lo zaino e siamo protetti come una lumaca con il suo guscio. Questo rituale si ripeterà un numero infinito di volte da qui fino alla fine della gara.
Qui non c’è la direzione gara che prende decisioni per noi in caso di mal tempo, siamo noi a doverle prenderle in autonomia.
Siamo soli, non ci sono volontari che ci indicano quale mano mettere su quella roccia. Passiamo in zone talmente sperdute che anche i classici omini di montagna diventano un miraggio e quei pochi che ci sembrano tali sono, in realtà, residui di qualche frana senza nessun valore di indicazione geografica. Passiamo in valli mai percorse da essere umano, dove i sentieri sono totalmente inesistenti. Questo è lo spirito della PTL.
E’ inutile fare i supereroi che non siamo, la stanchezza comincia a farsi sentire, le giunture scricchiolano ma la cosa che risente di più dei chilometri e delle ore sono i piedi. Fanno male soprattutto in punti che normalmente sono poco sollecitati dalla corsa. I lunghi traversi sulle pietraie ci procurano dolori alla parte esterna del tallone. Da qui in avanti avremo modo di valutare la nostra capacità di sopportare il dolore.
La gara è così complessa che esploriamo quasi tutti i nostri limiti sia fisici sia mentali.
Confidando che alcune piccole soste di quindici minuti ci siano sufficienti, al Refuge de la Balme mangiamo e nel cuore della terza notte ci incamminiamo verso la Pierra Menta. La nebbia è spessa e umida, illuminata dalle lampade frontali ci riporta ad uno stato di onirica sonnolenza che rende le nostre decisioni sul percorso da seguire molto difficili. La situazione è complicata dai numerosi segnali di altre gare sulla mitica montagna. Piove, abbiamo freddo, ci vestiamo, cambiamo le pile delle frontali, ma non riusciamo a trovare il passaggio e perdiamo molto tempo. Ci raggiunge un’altra squadra che si unisce a noi nella ricerca del colle da attraversare. Poco dopo, arriva anche Ivan Drago e sua sorella (che hanno dormito almeno un’ora). La scena è, più o meno, questa: sono le tre di notte, piove di traverso, siamo in cinque che cerchiamo riparo sul versante sud, tremando e vestiti con tutto quello che avevamo nello zaino, abbiamo tutti gli strumenti tecnologici possibili in mano, come se niente fosse lui ci sorpassa e si butta giù dalla scarpata che né noi né gli altri avevamo osato percorrere, dall’altra parte tira un forte vento da nord, Ivan ad un certo punto si ferma, a noi scappa un sorriso perché pensiamo si sia reso conto dell’errore, invece si toglie la giacca e con solo una maglietta riprende a scendere come se niente fosse. Idolo assoluto!
Dopo di che lo scenario cambia, la terra si sostituisce alle pietre, tiriamo un sospiro di sollievo, ma durerà veramente poco, il fango rende al limite del praticabile la cresta che dobbiamo percorrere.
Siamo oltre metà gara e fin ora non abbiamo ancora avuto grossi problemi. In questo tratto, invece, io sto letteralmente crollando. Non riesco a stare in piedi, o meglio continuo a camminare ma senza accorgermene cado sulla gamba non in appoggio, nell’istante in cui cado mi sveglio e punto il bastoncino per non cadere. Altri due passi e crollo dalla parte opposta. Mi vedo dall’esterno addormentato sul ciglio del sentiero, nessuno se ne accorge e mi lasciano lì. Sono fuori dalla mia comfort-zone. E’ un’esperienza nuova che non ho mai provato. Non so quanto sia durato questo vero e proprio incubo ma so che non mi posso fermare nel fango sotto la pioggia, devo raggiungere il prossimo rifugio. Mi concentro solo su questo anche se mancano almeno venti chilometri. Per fortuna “Ivan”, che sta guidando il gruppo, si ferma. Per una volta anche lui non sembra convinto che si possa passare. Benvenuto tra noi. A turno, facciamo alcuni tentativi per cercare delle alternative ma si rivelano tutte impraticabili e fuori rotta. Ci raggiunge un’altra squadra che, utilizzando i bastoncini come piccozze, riesce a passare. Il fango è ormai una melassa, per non rischiare oltre, mettiamo i ramponcini (grazie Nortec) e quello che sembrava impraticabile si rivela gestibile. Rimaniamo indietro e stiamo per perdere il contatto con il gruppo. Per svegliarmi corro avanti per rimanere in contatto visivo con gli altri. Riesco ancora a correre ed è quasi liberatorio dopo tante ore di cammino. Sono solo, a metà strada tra il gruppo e i miei compagni a cui faccio segnali con la frontale per indicare la strada. Di giorno con il bel tempo questo crinale deve essere meraviglioso, di notte con la pioggia invece non vedo l’ora che finisca. Raggiungo il gruppo ma non vedo i miei, mi fermo e mentre li aspetto arriva l’alba del quarto giorno. E’ sempre un momento magico e mi aiuta a rimanere sveglio. Cerco di calcolare le ore di sonno e mi fermo a quattro, stranamente non riesco a calcolare i giorni trascorsi. In teoria venerdì pomeriggio saremmo potuti arrivare a Chamonix, ci eravamo immaginati un arrivo trionfale un’ora prima della partenza dell’UTMB con tutto il pubblico ad applaudire. Ma i sogni spesso sono molto distanti dalla realtà, ci mancano ancora più di 100 chilometri e 10.000 m di salita.
A Beaufort (seconda e ultima base vita) mangiamo, io, non so bene per quale motivo, faccio anche una doccia e dormiamo quelli che oramai sono diventati il nostro standard dettato da Roberto per le soste lunghe, i nostri 45 minuti. Lo standard per le soste brevi di Roby è 15 minuti, a volte ridotti, con mio grande disappunto, a 13.
Nel cuore della quarta notte, ripartiamo rigenerati, sembra che il nostro corpo si sia adattato e si accontenti di molto poco. Temevo le ripartenze, invece, rituffarsi nella natura dopo essere stati al chiuso, per qualche ora, è quasi liberatorio. Siamo diventati come quei vagabondi (“tramp” in inglese) che intolleranti delle convenzioni devono continuamente rifugiarsi nella natura.
La gara è così lunga che l’esperienza accumulata nei primi giorni ci torna utile nei giorni successivi. Saliamo piuttosto bene, oramai la nostra tecnica di navigazione è collaudata: seguiamo la traccia sul Garmin di Luca, quando raggiungiamo un bivio o lui ha un dubbio, io apro la mia app Cartograph e mi dirigo in una direzione diversa da quella in cui si sta muovendo Luca. In questo modo ci rendiamo velocemente conto di quale sia la giusta direzione. Non siamo veloci come chi ha già provato il percorso ma riusciamo a cavarcela abbastanza rapidamente. Come nelle ultime tre notti, salendo, dapprima raggiungiamo la nebbia e poi comincia a piovere. In questa zona il fango è argilloso e si scivola anche sul piano. L’istinto accumulato in tante gare (abbiamo cercato di fare il conto di quante ne abbiamo fatte tra tutti e tre negli ultimi 10 anni e sono più di 1000) ci spingere a correre quando veniamo raggiunti da una squadra che sbuca dal nulla (o meglio dalla nebbia). Siamo oramai stabili intorno alla quarta posizione per quanto poco questo possa contare, visto che non c’è una classifica ufficiale, ma ci serve da stimolo per rimanere concentrati. Al magnifico rifugio du Petit Tetraz, io e Luca dormiamo i nostri 15 minuti, mentre Roby rimane a chiacchierare in sala. Ripartiamo veloci, ottimizzando al massimo la sosta. Ci siamo resi conto di essere molto più lenti del previsto a causa delle difficoltà del percorso e cerchiamo di recuperare sui tempi morti. Nella successiva salita è Roby a chiedere un time-out, si sta per spegnere e ci sediamo su una delle rare panchine che costeggiano la strada. Non faccio in tempo ad addormentarmi che si alza di scatto, cammina ancora per un po’ poi si risiede per un tempo indefinito, che mi sembra cortissimo, poi riparte. Non vuole parlare, procede da solo con i suoi demoni. Lo seguiamo per non perderlo. Osservato da dietro, sembra un burattino disarticolato che sta per cadere da un momento all’altro. Poi arriva l’alba e riacquistiamo un buon passo.
Nei pressi del Col Des Aravis cerchiamo di acquistare senza successo del cibo. Mentre proseguiamo, sento che il mio tendine d’achille del piede operato si sta infiammando e qualcosa si sta gonfiando sotto la calza. Fin ora i dolori e i problemi sono sempre stati di minore entità e gestibili (sopportabili), mentre ora so che è una cosa che può solo peggiorare. Mancano una settantina di chilometri che a ritmo PTL si traducono in un giorno e mezzo. Vedo tutta la fatica fatta fin ora come inutile e la possibilità di terminare la gara sfumare in un secondo. La posta in gioco è molto alta, normalmente mi sarei fermato ma decido di non abbandonare. So che ne pagherò le conseguenze. Cerco di trovare un minimo di sollievo utilizzando il bastoncino insieme alla gamba destra e bloccando l’escursione del tendine con il muscolo del polpaccio. Il dolore è così pungente che perdo lucidità, non so più se devo mangiare o dormire. Mi affido completamente ai miei due compagni per le decisioni più semplici.
Siamo fermi a un punto morto, mi sveglio dai miei brutti pensieri quando vedo Roby che va in una direzione e Luca in un’altra. Io vado in una terza, ma proprio non riusciamo a capire dove si debba passare. Ricordo Roby che dice che se saliamo poi non riusciamo più a scendere e se lo dice lui c’è da fidarsi, infatti nessuno lo contraddice. Valutiamo tutte le possibilità soppesando i pro e i contro e alla fine concordiamo per il passaggio nel canale nella speranza di non dover tornare indietro. Quando finalmente troviamo la via due squadre che stanno scendendo verso il fondo valle, ci vedo e, subito, fanno dietro-front. Il passaggio è stretto e rognoso ma siamo felici di esserci tolti da quella scomoda situazione. Arriviamo a un punto in cui l’erosione ha scavato un magnifico buco nella roccia da dove si vede tutta la valle successiva e capiamo perché l’organizzazione ha voluto farci fare tanta fatica, la vista all’imbrunire è stupenda. C’è da disarrampicare ma cerchiamo di fare in fretta perché in lontananza vediamo arrivare un temporale. Poco dopo inizia a piovere e con il buio comincia anche a fare freddo. Non riusciamo a capire quanto manchi al rifugio. Sotto il temporale, il buio è spesso, il terreno molto scivoloso e io ho molto freddo. La traccia devia bruscamente da quello che sembrava un sentiero. Dobbiamo seguire un traverso che diventa più ripido e di conseguenza scivoloso. C’è una luce dall’altra parte della valle ma la traccia non sembra andare da quella parte. Mi giro per guardare se stanno arrivando le due squadre a cui abbiamo indicato il passaggio e vedo, ne sono sicuro, centinaia di lucine scendere di corsa lungo i sentieri e dirigersi verso la luce nella valle. Sono centinaia di fiaccole che come uno sciame si rincorrono. Lo spettacolo mi lascia a bocca aperta e chiamo anche gli altri a cui cerco di dare una spiegazione scientifica del fenomeno. Una festa di paese magnificamente orchestrata dai pastori della valle che hanno messo delle piccole luci a LED sul collare delle pecore mentre tornano all’ovile. Roby e Luca annuiscono ma sono concentrati sulla ricerca del percorso perché il meteo sta peggiorando. Vediamo delle luci sopra di noi e delle luci che sembrano venirci incontro. E’ difficile capire da che parte andare. Decidiamo di seguire la traccia anche se il pendio su cui passa è franato. Ci sembra impossibile dover andare avanti. Mandiamo la nostra posizione con lo spot GPS e chiamiamo l’organizzazione che ci dice che le guide stanno salendo per deviare il percorso per evitare la frana e noi ci siamo in mezzo. Urliamo e imprechiamo contro le luci che si stanno avvicinando. Ci gridano di proseguire e di levarci da li. Facile a parole, un po’ meno a farsi. Non ne posso più, sono il primo della fila e mi concentro per non scivolare ma un piede su due non tiene, uso i bastoni come piccozze ma non bastano, a volte scivolano anche loro sul pendio. Vorrei fermarmi a mettere i ramponi ma non posso ne sedermi ne alzare un piede per metterli senza scivolare. Aumento la potenza della frontale al massimo per cercare di capire dove mettere i piedi e malauguratamente guardo in basso, c’è solo lo strapiombo e molto più in basso, anche se non si vede, si sente un torrente. Non riesco a procedere in linea retta e sto progressivamente scendendo verso la fine della frana che si getta dallo strapiombo. Soffro di vertigini e spesso nelle situazioni di equilibrio precario sul vuoto penso che piuttosto che continuare a soffrire sia meglio buttarsi, ma sono solo pensieri fugaci. Questa volta non sono solo le vertigini, ho veramente paura di cadere. Devo fare qualcosa per uscirne, le gambe mi tremano. Tasto il terreno ad ogni passo prima di caricarci il peso sopra, punto i bastoni tenendo quello a monte dall’impugnatura a metà (grazie NW) e quello a valle dalla sommità cercando di distribuire al meglio il mio peso prima di alzare l’altro piede. Non penso a nulla, non penso che posso cadere e scivolare, sono totalmente concentrato sulla ripetizione di questi gesti elementari, non sento il torrente che urla sotto di noi, non vedo la pioggia e il fango che scorre, non esiste nient’altro che il cono di luce che illumina i miei piedi. Lentamente dopo un lasso di tempo che mi sembra interminabile, la pendenza diminuisce e comincio a correre per fuggire dal pericolo appena scampato. Quando arrivo sul sentiero che scende dalla cresta mi giro per vedere a che punto sono Luca e Roberto ma vedo solo il buio. Ero convinto che fossero dietro di me. Urlo nella loro direzione ma la mia voce viene sovrastata dalla pioggia, dal vento e dal torrente che urlano a loro volta. Non so cosa fare. Se sto fermo congelo, ma non me la sento di tornare in quell’inferno. Grido e faccio segnali alle guide che stanno andando a deviare il percorso per evitare la frana da cui sono appena uscito. Non mi sentono. Forse sono tornati indietro, forse sono sceso troppo io. Devo tornare sui miei passi, non possiamo perderci. Finalmente vedo una luce che mi viene incontro, non può che essere uno di loro. Illumino il viso di Luca e vedo la paura disegnata sulla sua faccia. Lui, che è sempre graniticamente impassibile, è bianco e sembra stanchissimo. Nessuno dei due dice una parola, non vediamo Roby. Dopo quella che a noi sembra un’eternità dal buio sbuca finalmente anche lui. Ha i ramponi ai piedi. La sua faccia non la descrivo neanche, farfuglia qualcosa sul limite, sulla morte, dice che gli è passata la sua vita davanti agli occhi ma è anche stupito di aver visto sua mamma e non i suoi figli. Ci guardiamo per un attimo tutti e tre negli occhi illuminati dalle frontali e capiamo di aver corso un rischio enorme e di esserne usciti fortunatamente interi. E’ un momento drammatico ma anche molto intimo. Siamo sul ciglio di un burrone, sotto la pioggia, con un vento gelido che ci soffia sulla testa e siamo felici di essere di nuovo tutti insieme.
Nelle situazioni veramente critiche riusciamo a tirare fuori un primordiale istinto di sopravvivenza che processando istantaneamente tutte le informazioni e la nostra esperienza ci aiuta a rimanere concentrati sulla via di uscita.
Quando raggiungiamo il sentiero vediamo le altre squadre passate per la cresta che stanno già scendendo, le salutiamo, non c’è neanche bisogno di dircelo ma la nostra gara finisce al Col de Doran. In religioso silenzio scendiamo e mestamente ci dirigiamo verso il rifugio, finalmente smettere di piovere. Ognuno è assorto nei suoi pensieri. La tensione lentamente cala.
A volte di notte per la stanchezza le ombre si trasformano in animali fantastici e a me sembra di vedere sulle pietre bianche disseminate lungo la valle dei disegni che sembrano fatti a china con uno stile alla Capitan Harlock, pirati, teschi, ragnatele, uno più bello dell’altro. Penso che sarebbe bello farci delle magliette per Wild Tee. M’immagino il pastore (un vero artista) che le dipinge nelle lunghe ore di attesa mentre il gregge è al pascolo.
Entriamo al rifugio e non raccontiamo nulla dell’accaduto, decidiamo di fare una sosta di qualche ora per lasciarci alle spalle il ricordo di questa brutta notte.
Il giorno dopo il cielo è limpido e proseguiamo il nostro cammino con una rinnovata serenità. Vogliamo chiudere il giro senza fretta, godendoci ogni metro degli ultimi chilometri.
Dopo quello che abbiamo passato le normali difficoltà della gara ci fanno sorridere e ci dirigiamo scherzando verso i 2000 metri di dislivello positivo che ci attendono al duecentosessantesimo (si fa fatica anche a scriverlo) chilometro.
La tensione svanisce, il tempo non esiste più, i dolori scompaiono e siamo solo noi tre e la montagna. Sappiamo che, prima o poi, arriveremo alla nostra meta. Cominciamo a visualizzare l’arrivo o meglio, l’immagine che tante volte funziona molto di più dello striscione: un bel pranzo al sole, innaffiato di buona birra, prendendoci tutto il tempo per riordinare i pensieri.
Le difficoltà non sono finite ma l’esperienza accumulata ci torna utile per affrontarle con la dovuta ironia. Si, perché per arrampicarsi sul Passage du Dérochoir mezzi congelati nella nebbia e ridere come degli scemi ci vuole una certa dose d’ironia.
I sentieri prima e dopo il Refuge de Plate (i ragazzi che gestiscono il rifugio sono fantastici e abbiamo fatto uno dei migliori pranzi della settimana) sono la quinta essenza del Trail, un perfetto #todaysplayground, e nonostante i 280 chilometri nelle gambe ce li corriamo tutti.
Siamo così programmati verso l’alternativa più difficile che proseguiamo su una cresta esposta sbagliando strada, invece che scendere disarrampicando sul sentiero.
Mi sento bene, tendine a parte, ma quello l’ho escluso dai miei pensieri, è un argomento che affronterò nei giorni successivi.
Uno splendido tramonto ci accoglie e sospinge verso l’ultima salita al Col de la Brévent. Dall’altra parte ci attende Chamonix, dove durante la nostra assenza si sono avvicendati gli arrivi di tutte le altre gare. Abbiamo quasi paura di abbandonare il silenzio e la solitudine di quello che è stato il nostro mondo per quasi una settimana.
Temevo molto i metri di dislivello, invece, salgo ancora bene, potrei anche spingere di più. Dare risposta ai miei dubbi, riuscire a salire di buon passo, è una soddisfazione enorme.
Ancora una volta si è compiuta la magia dell’ultratrail: quello che sembrava impossibile alla partenza, si è trasformata in un’enorme esperienza di vita.
PS: con enorme mancanza di tatto, il giorno dopo, i miei compagni d’avventura rovinano drasticamente le mie illusioni dicendomi che non c’era nessun branco di pecore con le lucine che correva. Molto spesso la mancanza di sonno provoca allucinazioni che prendono la forma delle nostre paure più profonde, i tronchi si trasformano i orsi pronti ad attaccare, le ombre in mostri che ci inseguono, i boschi in tunnel senza fine, invece era la prima volta che prendevano una forma così poetica.
In 135 h sia io sia Roberto abbiamo usato due pantaloncini Bryce e tre magliette a testa, inoltre abbiamo testato le nuove calze Rockies e il secondo strato Appalachian che usciranno nel 2019.